Nel caldo torrido della frontiera di Wagah sono solo, nessun turista, nessun pakistano, nessun indiano in attesa di passare dall'altra parte, e cosa più singolare neppure poliziotti ad attendermi nell'ampio corridoio di transito dell'edificio adibito a dogana dove un militare altissimo e con un buffo copricapo mi aveva bruscamente indirizzato.
C'è silenzio ma sento distintamente delle voci e un fruscio di motore provenire da una porta chiusa non distante più di dieci metri da dove mi trovo, pochi passi oltre l'ingresso principale. Busso e le voci cessano, sento passi avvicinarsi lentamente e quando la porta si apre una ventata di aria fresca mescolata ad odore di sigaretta mi toglie quasi il respiro. Un impiegato di bassa statura con i baffi mi squadra e mi fa cenno di sedermi su delle sedie poste poco più avanti, a fianco dei banconi per il controllo dei passaporti. Ubbidiente vado, ma ho il tempo di scorgere 2 persone stravaccate su delle sedie poste appena sotto un enorme ventilatore a pale appeso al soffitto. L'uomo rientra chiudendosi la porta alle spalle e lasciandomi quasi un'ora in attesa.
Tra Pakistan e India esiste un solo punto di confine e ogni giorno, prima del tramonto, si accalcano migliaia di persone per assistere alla cerimonia di chiusura, e camminando solitario per la strada che conduce verso l'India, osservando i pochi miliari assonnati e sbracati su sedie o per terra e gli spalti da stadio adiacenti la strada e assolutamente vuoti, mi riesce difficile immaginare come possa questo posto trasformarsi in quel caos di folla e nazionalismo che mi è stato raccontato.
La lentezza è pure dell'India e impiego un'altra mezzora per superare tutti i controlli.
Quattro giorni dopo, su suggerimento interessato del direttore dell'hotel dove soggiornavo, son tornato al posto di frontiera per assistere alla cerimonia di chiusura e ho visto quegli stessi spazi vuoti riempiti davvero da migliaia di persone vocianti e quegli stessi militari indolenti trasformati in delle furie dalle grida della folla.
C'è silenzio ma sento distintamente delle voci e un fruscio di motore provenire da una porta chiusa non distante più di dieci metri da dove mi trovo, pochi passi oltre l'ingresso principale. Busso e le voci cessano, sento passi avvicinarsi lentamente e quando la porta si apre una ventata di aria fresca mescolata ad odore di sigaretta mi toglie quasi il respiro. Un impiegato di bassa statura con i baffi mi squadra e mi fa cenno di sedermi su delle sedie poste poco più avanti, a fianco dei banconi per il controllo dei passaporti. Ubbidiente vado, ma ho il tempo di scorgere 2 persone stravaccate su delle sedie poste appena sotto un enorme ventilatore a pale appeso al soffitto. L'uomo rientra chiudendosi la porta alle spalle e lasciandomi quasi un'ora in attesa.
Tra Pakistan e India esiste un solo punto di confine e ogni giorno, prima del tramonto, si accalcano migliaia di persone per assistere alla cerimonia di chiusura, e camminando solitario per la strada che conduce verso l'India, osservando i pochi miliari assonnati e sbracati su sedie o per terra e gli spalti da stadio adiacenti la strada e assolutamente vuoti, mi riesce difficile immaginare come possa questo posto trasformarsi in quel caos di folla e nazionalismo che mi è stato raccontato.
La lentezza è pure dell'India e impiego un'altra mezzora per superare tutti i controlli.
Quattro giorni dopo, su suggerimento interessato del direttore dell'hotel dove soggiornavo, son tornato al posto di frontiera per assistere alla cerimonia di chiusura e ho visto quegli stessi spazi vuoti riempiti davvero da migliaia di persone vocianti e quegli stessi militari indolenti trasformati in delle furie dalle grida della folla.